Sono passati solo pochi mesi e lo skate park di fronte il tribunale di Palermo è già chiuso o meglio circondato da un debolissimo filo di plastica che non dice nulla rispetto alla pericolosità delle strutture danneggiate e comunque utilizzate da bambini e ragazzi.
Le prime settimane dopo l’allestimento sono state volteggianti non c’è che dire, con il passare del tempo però i ragazzi che ne hanno promosso la realizzazione si sono dileguati, incapaci di gestire i rapporti con i bambini e gli adolescenti del quartiere, abituati a ben altro modo di vivere gli spazi della città, o forse delusi da un’amministrazione che ha usato, in piena campagna elettorale, l’installazione dello skate park, come risposta ai bisogni di una parte della popolazione giovane che chiede spazi dove giocare, dove esprimere il proprio rapporto con la città. Ma tanti altri prima dell’allestimento di questa struttura usavano già la piazza svolgendo attività sportive differenti e senza chiedere attrezzature di nessun tipo. Penso al gruppo che si allenava ogni sera a pallavolo montando una rete tra palo e ringhiera, alle partire di calcio, a quelle di pallacanestro con tubo e canestro saldato, ai bambini in bicicletta o con la palla, alla gente seduta nelle panchine. Vere e proprie appropriazioni ludiche dello spazio ma anche forme di rivendicazione: di ulteriori spazi per il gioco e lo sport, di socialità urbana, suggerimento a chi progetta di pensare a spazi duttili capaci di favorire l’inclusione e la vivibilità.
Per un attimo ti viene da pensare: vuoi vedere che, senza saperlo, l’architetto Franco Bernardini (https://francobernardini.wordpress.com/) progettista di piazza Vittorio Emanuele Orlando qualche domanda sui modi di concepire e vivere la città se l’è fatta? Poi però ti rendi conto che no, manca nel progetto della città e dei suoi spazi pubblici la capacità di guardare alle pratiche del gioco, di prevederle, di osservare quelle esistenti per capire quanto uno spazio influenzi comportamenti e faccia esplodere socialità.
Ormai è sempre più evidente come gli spazi della città vengano continuamente re-inventati e re-interpretati dai suoi fruitori. Anche in piazza Vittorio Emanuele Orlando l’azione ludica spontanea ci svelava i molteplici modi di interpretare e fruire lo spazio. Differenti azioni per differenti usi senza che nessuno decidesse limiti, stabilisse categorie o regole.
Una convivenza nata dalla spontaneità dell’uso dello spazio urbano, quella che crea mescolanze senza attriti, quella che guarda lo spazio intorno e ne trae risorsa, magari da niente. Allora perché attivare pratiche di conquista dello spazio interpretando i bisogni di pochi e senza che nessuno lo abbia prima osservato, decifrandone le dinamiche, registrandone ora dopo ora i differenti usi?
Una piazza senza nessuna qualità architettonica ne riceveva tanta da chi la usava e ne faceva un posto aperto. L’arrivo dello skate park, così progettato, seguendo dinamiche care ad un’amministrazione di propaganda, è caduto in questo tranello, non ha valutato, per disinteresse o per mancanza di competenze, una componente fondamentale: quella della relazione con il territorio, quella dell’analisi dei bisogni e dell’educativa di strada. Bastava forse attivare sinergie con chi da anni questi processi li vive, li avvia, li gestisce e li porta a termine. Ogni gioco, compreso quello libero e all’aperto, è apprendimento, occasione per sensibilizzare gli altri, pratica educativa, ancora di più in contesti urbani poveri di strutture per il gioco ma ricche di incontri tra chi si auto-organizza: bambini e ragazzi, siano essi migranti o autoctoni, che permettono a posti come le piazze del centro della città di non trasformarsi in luoghi di disuguaglianza e marginalizzazione.
Ora invece, nella piazza di fronte il tribunale, resta una struttura pericolosa, non spiegata, danneggiata, insieme ad un recinto di piante ormai secche anche queste un’offesa al fiorire spontaneo, all’ambiente che accoglie, alle diversità che si incontrano, alle risorse che si attivano per restare vivi e giocosi. Perchè la città che gioca diventa ambiente magico, che va oltre la semplice attività sportiva, diventa luogo di relazioni sociali, di conoscenza, di riconoscimento di gruppi di appartenenza e di abitudini.
La città che gioca e chi ci gioca dentro sono il segno di un impegno quotidiano a dare vita a luoghi che resterebbero vuoti e senza funzione, a suggerire quella visione che manca a molti architetti: la visione della città e della gente.
Forse è il momento giusto per provarci: progettare pensando al playground, attivare una percezione ludica quando si osserva uno spazio urbano, avere già nella mente e nel cuore la comunità che lo animerà.
Insieme allo skate uscendo da casa, scelgo un mezzo e uno strumento, uno spazio e le strutture architettoniche esistenti, e infine scelgo la città, tutta.
E magari prima di uscire scelgo anche un libro. Qualche anno fa ne ho incrociato uno che fossi al posto degli skaters leggerei.
Stupidi Giocattoli di Legno. Lo skate nel cuore della metropoli di Flavio Pintarelli edizioni agenzia X - anno di pubblicazione 2014
“Gli skater cominciarono ad attraversare gli spazi urbani con occhi nuovi, a vederli sotto una luce diversa. Giravano in gruppo, in auto, alla ricerca di spot adatti alla loro nuova disciplina. Impararono a riconoscere quei segni che testimoniavano la presenza di una casa abbandonata o di una piscina vuota, di un canale in secca o di un condotto fognario in disuso; se ne appropriavano in una tensione espressiva e creativa in cui il corpo, la tavola e lo spazio davano vita a una performance coordinata ed entusiasmante: perché contraddiceva in ogni istante le regole con cui quegli spazi erano stati vissuti fino a quel momento.
In parte flaneur, in parte cartografi, gli skater stavano dando vita a un modo innovativo di entrare in rapporto con luoghi che fino a quel momento erano stati abituali. Nuove letture di quegli spazi si dispiegavano sotto ai loro occhi, nuovi modi per esprimere una particolare forma di creatività corporea, un mondo nuovo che nasceva dall’esplodere di una percezione diversa, dovuta all’interazione tra un essere umano, un utensile tecnologico e una forma di organizzazione dello spazio”