mercoledì 27 marzo 2013

è il modo che è diverso







 Un bambino che scrive storie, ama i numeri, compone musica: David. 


Una bambina che, arrivata da un kosovo in guerra, sogna di diventare una modella e intanto a casa sta attenta ai suoi fratelli più piccoli: Anita.


Un bambino che lo sa che per lui ci vuole un pò più di tempo per capire, ma l'impegno ce lo mette tutto: Lucas.



Nella stessa classe a Berg fidel a nella città di Munster per quattro anni, a condividere difficoltà, conoscenze, relazioni, scoperte. 4 anni per svelare tutto il loro potenziale, fatto di parole nuove, di esperienze di vita che si intrecciano a quelle della scuola, di avvicinamento agli altri, alle storie che porta e a quelle che nasconde. 


Una scuola che fa convivere bambini e bambine portatori sani di diversità (quella che ci migliora). insegnanti che vorresti incontrare, che ti piacerebbe sentir parlare così dei tuoi figli, anzi ai tuoi figli. Capaci di confrontarsi su un terreno comune che è quello del bene di ogni bambino e di ogni bambina, di usare le loro parole per dire le difficoltà, colorare i successi, guardare avanti nonostante tutto.




Dopo aver assaporato per 87 minuti il documentario Berg Fidel di Hella Wenders (proiettato per la prima volta in Italia ieri a Palermo http://www.goethe.de/ins/it/pal/ver/it10302235v.htm), scopro che il sistema scolastico tedesco non prevede l'inclusione della disabilità nel percorso formativo ordinario, anche piccole difficoltà o ritardi nell'apprendimento (definìzioni pessime usate anche da noi in italia) vengono dirottate in percorsi speciali. Mi è sembrata una selezione non proprio naturale, una forzatura del pensiero che vede esperienze vincenti come quella della scuola seguita dalla regista per 4 anni (alla fine del documentario veniamo confortati dal fatto che la scuola frequentata da Anita, Jacob, Lucas e David sta cercando di espandere il periodo di permanenza dei bambini proprio per tutelare questo valore dato dalla mescolanza e dal confronto)




Si, c'è anche Jacob, il fratello down di David, è proprio lui ad essere felice quando i bambini della classe gli riconoscono la capacità tutta sua e non di altri di farli ridere. E vi sembra una cosa da poco?
In un momento di scambio tra i bambini della classe insieme all'insegnante, meravigliosa esperienza di socializzazione delle difficoltà, dei pensieri, dei problemi da risolvere insieme, riconoscere a Jacob questa qualità ha fatto crescere tutti. 
Si può guardare questo documentario senza pensare ai due che stanno intanto a casa?
No, non si può.
Ho pensato a loro tutto il tempo, li ho visti negli occhi di tutti i bambini, li ho sentiti nelle parole pronunciate, nelle capacità già svelate e in quelle che verranno. Li ho visti arrivare da soli a scuola, magari in bicicletta o a piedi, entrare in classi diverse e poi incontrarsi in cortile. cominciare a segnare una strada che sia la loro. Ho sentito anche tutte le difficoltà, le mie, nel seguirli, nell'assecondarli, nel lasciarli andare e nel lasciarli fare. Il timore, sottile ma ragionato, che forse non sto facendo bene e che forse in futuro quello che ora risolviamo con uno sguardo di pazienza e un gesto di perseveranza, lo dovremo spiegare e capire insieme, arrivando così ad essere consapevoli di sé stessi, di quello che si è e che si porta sulle spalle, che sia piccolo o grande, non importa. 
E' importante e bello il dialogo tra David e Lucas, seduti a scuola mentre stanno svolgendo un'attività, scherzano senza essere consapevoli dell'importanza delle loro semplici parole, David dice a Lucas che continua a scherzare mentre svolge la sua attività "ma cos'hai la sindrome di stickler?"
e Lucas "ho la stupidità che è contagiosissima".

La sindrome di Stickler http://it.wikipedia.org/wiki/Sindrome_di_Stickler è quella che David sa di avere, sapendo benissimo che cosa comporterà nel tempo per lui. (Qui il merito va a due genitori in grado di far fronte a questa spiegazione e a questo processo di accettazione).
David una volta terminato il suo periodo di studi alla Berg Fidel continua a studiare in una scuola Montessoriana, l'unica che gli consentirà l'accesso all'Università. Lucas e Anita non andranno all'università, forse non stava nelle loro scelte, ma le scuole che frequentano dopo la Berg Fidel non ne garantiscono l'accesso. Jacob frequenta un altro anno alla Berg Fidel e dopo verrà destinato ad una scuola speciale. 

Educare è un verbo delicato è il titolo di un capitolo del libro di Grazia Honegger Fresco  Dalla parte dei bambini- La scuola dall'obbligo all'oblio. (Edizioni L’Ancora del Mediterraneo - Napoli), lei è una delle ultime allieve della Montessori che nei suoi libri fa ordine sulla pedagogia montessoriana che è indirizzata, tra le altre cose, alla conquista dell’indipendenza. “Aiutami fino a che mi serve” è un importante punto di partenza già dalla nascita e che sin dai primi anni di vita dei due è la frase che cerco di tenere ferma in mente. Una frase che è un atteggiamento di fiducia fondamentale per acquisire competenze e capacità (non facile tenerla sempre a mente).
E ieri sera, dopo aver visto il documentario, ho ripensato al concetto di società per coesione, che la honegger fresco ricorda nel libro.C'è un'interessante intervista in questo link http://www.superando.it/2009/04/21/non-si-risolve-separando/ nella quale lei stessa ci ricorda che 
«Maria Montessori lavorò molto per la socializzazione (anche se alcuni erroneamente sostengono che non se ne occupò), mirando all’indipendenza e allo sviluppo delle capacità di essere attivi in modo costruttivo; tendeva a fare in modo che i bambini, insieme alle loro diversità (quanto più sono diversi tanto meglio stanno), riuscissero a costruire una collettività, una comunità, che Maria Montessori chiamava “società per coesione”. Ebbene, una società per coesione può essere costruita  da persone che – grazie a questo ambiente preparato e all’atteggiamento non violento degli adulti, quindi senza giudizi, senza voti, senza confronto e competizione – hanno maturato. 
Il bambino sordo, il bambino cieco possono fare tantissimo da sé. Bisogna guardare a ciò che hanno e non a quello che non hanno. Perché se la scuola è basata sul giudizio, sul “tu non sei capace, quindi non vali”, è come dire “ti metto da parte, ti affido a qualcun altro, io non me ne occupo”. La soluzione non sta nel separare per meglio addestrare, ma nel creare un clima sociale non competitivo, evitando di programmare a priori. Dobbiamo mettere nelle mani del bambino la chiave del suo sviluppo, riconoscendogli capacità autocostruttive».
E sempre in questa intervista trovo un collegamento importante con la realtà tedesche e con il documentario di Hella Wenders «Anni fa visitai una grande scuola a Monaco (presso l’ex villaggio olimpico), che fu la prima esperienza di integrazione, promossa da Theodore Hellbrügge. Avendo egli lavorato in precedenza in scuole speciali, osservò che i bambini affetti dalle medesime patologie sviluppavano delle difficoltà di tipo sociale, che chiamava sociosi, legate al rapportarsi tra uguali.
Hellbrügge conobbe a Francoforte la scuola Montessori, dapprima con una certa riluttanza, perché il metodo era considerato “superato”, rimanendo invece colpito dal livello di scambi e di autonomia dei bambini e, con la collaborazione di Margarete Aurin, diede inizio all’esperienza con un gruppo di venti bambini più altri cinque con difficoltà differenti. Il massimo di eterogeneità possibile favorisce lo sviluppo: così come per l’età, dai tre ai sei anni, così i bambini con difficoltà: erano un sordo, un cieco, un down, uno autistico e uno spastico. Quest’ultimo, di cinque anni, si muoveva solo strisciando. Osservammo che, giunto a scuola accompagnato dalla madre, lentamente si spogliava da solo senza aiuto, anche se con fatica (la madre non interveniva, come consigliato dall’insegnante), salvo appendere il cappotto poiché non arrivava all’attaccapanni. Per entrare poi nella sua classe, una corda appesa alla maniglia gli consentiva di aprire la porta. La maestra lo salutava, i suoi compagni anche. Lui conosceva tutte le posizioni dei materiali predisposti, in modo da poter operare da solo con essi. 
L’idea era quella di predisporre tutti gli aiuti indiretti che consentissero al bambino un’autonomia, senza l’aiuto diretto da parte degli altri. Anziché appendere l’asciugamano ad altezza dell’adulto, basta infatti predisporlo all’altezza adeguata per consentire l’autonomia».

Concludo con un pensiero-invitante di una mia amica rivolta ai suoi studenti universitari: "Nel frattempo vi invito a pensare, con Piotr Kowalski, che ciascuno di noi, sempre, anche quando (crede di ) sta(r) fermo o dorme, si muove e si sposta, insieme alla Terra, alla velocità di 29,9 km/s . Peccato di non avvertirne mai la fatica…" Muoviamoci allora con la leggerezza e la consapevolezza dei nostri pesi: che sono le cose che sappiamo fare, il ruolo che abbiamo, le parole che pronunciamo, le controversie che appianiamo, gli sguardi che rivolgiamo.  
In questo link http://www.indire.it/eurydice/content/index.php?action=read_cnt&id_cnt=828 trovate un rapporto sulla questione dell'integrazione della disabilità nelle scuole europee. interessante. Alcune cose nel frattempo alcuni stati le avranno aggiornate, ma aiuta a farsi un'idea.






venerdì 8 marzo 2013

conquistare e difendere


«Le case sono proprio dei corpi. Noi siamo attaccati ai muri, ai tetti, agli oggetti esattamente come al nostro fegato, allo scheletro, alla carne e al nostro flusso sanguigno. Io non sono una bellezza, non c'è bisogno di uno specchio per accertarmene eppure sto attaccata a questa mia carcassa come se fosse il limpido corpo di Venere. E questo vale anche per la stanzetta che occupavo allora; il mio corpo, i gatti, la gallina rossa sono tutti il mio corpo, tutti parte del mio pigro flusso sanguigno» (Il cornetto acustico, 1974). 

Ho letto questo articolo  e l'ho subito collegato ad un libro di tanto tempo fa Il cornetto 
acustico di Leonora Carrington. Nel libro si parla di Marion,una novantanovenne battagliera, e delle sue amiche che, confinate in un magico ospizio, ne prenderanno in mano la gestione e fonderanno una comunità gestita esclusivamente da donne. 
Ci sono cose che vanno prese, non necessariamente con la forza, ma vanno trattenute. Va legittimato un bisogno e un'urgenza. La storia delle famiglie che hanno occupato, abitandolo, un palazzo a Siviglia è uno degli esempi belli della traduzione del bisogno in pratica necessaria.
La condivido, lo farei anch'io, il fatto di non voler aderire ad un sistema di comportamenti precostituito è una forma di attacco a questo sistema: un attacco frontale e diretto. Ci sono dei confini da attraversare, dei nuovi segni da tracciare, per questo un gruppo di famiglie, donne in testa, ha occupato una Corrala, un antico complesso popolare disabitato da oltre due anni. 
Che pensieri si hanno prima di fare un gesto come questo? Si dovrebbe avere paura? O vergogna? Vergogna di che poi, di riconoscersi in uno stato di povertà? La Corrala è stata chiamata Utopia (qui http://www.corbisimages.com/stock-photo/rights-managed/42-37604407/spain-economy-illegal-occupants-of-private-building trovate delle belle foto che raccontano). Un'altra è stata chiamata La illusion. 

Si sono formate subito forme di cooperazione e autogestione, quel 'sostituirsi allo Stato' che conosciamo bene. Diventare istituzione primaria da difendere, diventare sapere da condividere, forza per tirare tutti gli altri e le altre, tempo e servizi per tutte e tutti, forme di partecipazione collettiva. Non ci sono passaggi di consapevolezza qui da sottolineare, da rivendicare, qui c'è un'urgenza che chiama e questa urgenza ha tanti nomi: si chiama tempo per sé stesse, tempo per i figli, tempo per il lavoro, tempo per la ricerca di un lavoro, si chiama studio, amore, viaggi, divertimenti, si chiama consapevolezza di sé, forza contro tutte le violenze, autodeterminazione. Lo spazio della politica è pubblico, non sta sul web, non crea cittadinanze virtuali, crea vita vera, abbracci, occhi che si guardano, parole sentite e non solo lette, parole pronunciate con toni, misure e volumi.
Allora più che citare...

Charlotte Whitton, una femminista canadese del secolo scorso (non ne conoscevo l'esistenza, ringrazio Raffaella Lombardi): “Le donne devono fare tutto due volte meglio degli uomini per essere considerate brave la metà….. per fortuna non è difficile!”
(che dire, geniale!)
Preferirei ricordare...
"In quei mesi a Firenze ci fu per esempio una ragazza di nome Tita Lorenzoni. Aveva venticinque anni. La formazione alla quale apparteneva si era già dislocata, in parte, nell'Oltrarno. I tedeschi e i repupplichini controllavano con ogni mezzo le rive del fiume. C'erano anche, però, altri partigiani organizzati clandestinamente. Per ben tre volte Tina riuscì ad attraversare le linee per assicurare il collegamento fra i resistenti. Venne presa e messa in prigione:tentò di fuggire, venne ripresa, fucilata. La motivazione della medaglia d'oro che anni dopo le fu conferita, dice di lei: "Angelo consolatore tra i feriti". Tutta quella spericolatezza, tutto quel coraggio, umiliati da un qualche alto funzionario addetto alla scrittura, che non conosceva le parole da pronunciare per definire una persona come Tina". 
Tratto da Libere sempre, di Marisa Ombra Einaudi 2012